Frutto della collaborazione avviata da Claudio Orazi, sovrintendente della Fondazione Teatro Verdi,con il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo (collaborazione che ha già portato l’anno scorso in scena a Trieste “La bella addormentata” di Čaikovskij nella storica versione di Petipa) questo spettacolo ha visto apparire per la prima volta nella città adriatica due balletti di grande interesse, provenienti dal repertorio del primo Novecento e legati tra loro da un sottile fil rouge. “Salomé” su musiche di Florence Schmitt e “Apollon ” su quelle di Igor Stravinskij, furono infatti entrambi presenti nel repertorio dei famosi Balletti Russi dell’impresario Sergej Diaghilev: il primo presentato al Théâtre du Châtelet di Parigi con la ballerina Tamara Karsavina nel 1913 (dunque esattamente un secolo fa), mentre il secondo apparve in prima europea al Théâtre Sarah Bernhardt nel 1928 con la coreografia di George Balanchine e Serge Lifar nel ruolo principale.
Ma i legami non finiscono qui, come vedremo. Schmitt, musicista e critico lorenese nato nel 1870 e morto nel 1958, compagno di studi di Ravel al Conservatoire parigino e vincitore nel 1900 del Prix de Rome, godette in Francia di una buona popolarità nei primi tre decenni del secolo scorso. Una fama invero a fasi alterne, poiché il suo stile compositivo non sempre si mantenne nell’ambito di quell’impressionismo imperante in patria, con scelte talvolta non bene accette al pubblico francese. Il balletto “La Tragédie de Salomé”, da lui presentato per la prima volta a Parigi nel 1907 al Théâtre des Arts con la compagnia di Loïe Fuller (e poi trasformato anche in una suite per grande orchestra) deriva nel soggetto da un poema di Robert d’Humières; ed è guarda caso dedicato proprio a Stravinskij, la cui figura si stava allora affacciando sulle scene parigine. “Devo riconoscere che questa è la più grande gioia che un’opera d’arte mi abbia provocato da tanto tempo”, scriveva questi all’autore ringraziandolo, ed aggiungeva “…sono fiero che mi sia stata dedicata”. Uno slancio insolito, per un egocentrico assoluto quale era il grande musicista russo; ma è indubbio che qualcosa del carattere di questo balletto – nel quale Schmitt profonde freschezza d’ispirazione, un melodismo raffinato, sontuosità di colori ed una sapiente orchestrazione – abbia finito per riversarsi proprio nella sua “Sacre du Printemps”. Una partitura certo ben più innovativa, va da sé; ma che vista sotto questa prospettiva, perde una qualche parte del suo proclamato carattere innovativo. D’altro canto, anche il “Prologue” orchestrale di “Salomé”, che intende descrivere il palazzo d’Erode e il paesaggio che lo circonda, non pare per nulla inferiore alla ouverture “Shéhérazade” dell’amico Ravel. (Per avere concreta idea della raffinata scrittura di Schnitt, andate a cercarvi in https://www.youtube.com/watch?v=_JTQSLP8t34 il coevo, delizioso suo Quintetto con piano op. 51, disponibile anche in CD Naxos).
Sia come sia la “Salomé”, per il suo fascino musicale, e per quello del seducente soggetto – tanto noto che non vale la pena di parlarne – ha un suo posto nel repertorio coreografico, ed è anche l’unica sua partitura che, almeno in terra di Francia, riappare di tanto in tanto nei programmi concertistici; e ciò pur se Schmitt ritentò la carta dell’esotismo tanto amato dal pubblico dei concerti con altri titoli orchestrali quali “Dionysiaques and Selamlik “ (1913), “Antoine et Cléopâtre” (1921) e “Salammbô” (1925).
Musicalmente la struttura di “Salomé” è divisa in due sezioni, coreograficamente comprende sette numeri: il coreografo russo Emil Faski ha creato per questa nuova sua versione presentata in prima assoluta a Trieste una lettura intrigante, con la quale punta su di un castigato esotismo rivisitato in chiave moderna, senza mai eccedere nel kitsch. Tutte le scene appaiono ben costruite, con un coreografismo sobrio e molto descrittivo: specie la scena dei sette veli, risolta con molta raffinatezza, e quella in cui Salomé, dopo aver ottenuto la testa del Battista, sogna di congiungersi con lui. Tutto pensato anche per porre in bella evidenza la grande professionalità dei membri del corpo di ballo russo, e soprattutto quella della giovanissima danzatrice Viktorija Brilëva, un’affascinante, eterea Salomé; convincente nel ruolo di Giovanni Battista anche Andrej Ermakov. Erodiade era affidata alla brava Liubov’ Kožarskaja, Erode ad Anton Pimonov; intorno a loro, un efficiente insieme composto da Ol’ga Gromova, Darina Zarubskaja, Aleksandra Somova, Natal’ja Šmonova (le ancelle) e Alexander Savel’ev, Grigorij Pjateckij, Jaroslav Puškov e Vladislav Šumakov (i soldati di Erode). Di squisito effetto poi sia i costumi molto raffinati di Pier Paolo Bisleri, sia la suggestiva ed ariosa scenografia, sempre sua, che descriveva la terrazza del palazzo di Erode con pochi sapienti tratti, incorniciando il paesaggio della Galilea tra alte colonne, ed arricchendo il tutto con un appropriato uso di video proiezioni.
Quanto a “Apollon Musagète”, partitura per soli archi dal sapore prettamente neoclassico ed a tratti dalla scrittura quasi ieratica, a Trieste è stata ripresentata la storica e celebre ideazione coreografica di Balanchine, che dal 1928 venne ripresa e maturata nel tempo più volte, lavorando per sottrazione sino ad ottenere uno spettacolo asciutto ed essenziale: non solo man mano sparirono infatti le invenzioni scenografiche iniziali di Andrè Bauchant, sino a ridurre la scena ad un vuoto riempito solo da un’idea di scala per l’ascesa finale di Apollo all’Olimpo, ma anche il Prologo con il parto della madre Latona. In questa veste definitiva, ribattezzata semplicemente “Apollon”, il lavoro di Balanchine si è trasformato in uno dei caposaldi del repertorio ballettistico, e portato in scena innumerevoli volte ; in Italia, lo si vide per la prima volta a Venezia nel 1950, nell’ambito del mai abbastanza compianto Festival di Musica Contemporanea.
Le accuse di scarsa ‘teatralità’ mosse al soggetto – Apollo dopo la sua nascita affida a tre muse la poesia epica, la poesia lirica e la danza, conducendole infine con sé al Parnaso – lasciarono indifferente il grande coreografo russo-americano, che considerò questo lavoro una decisiva svolta nella sua carriera, commentando che in esso «la tecnica è quella del balletto classico, teatrale in ogni senso, ed è qui che intravediamo l’inizio della vera e propria trasformazione del suono in gesti visivo». La sua versione è stata rimontata per la compagnia di ballo del Teatro Mariinskij da Francia Russell (già collaboratrice di Balanchine al New York City Ballet, ed divulgatrice dei suoi lavori) ed è stata affidata, nello spettacolo al quale abbiamo assistito, all’eccezionale talento di Vladimir Škljarov (Apollo), ed alla indiscutibile bravura di Marija Širinkina (Tersicore), Nadežda Batoeva (Polimnia), Viktorija Krasnokutskaja (Calliope).
Non dimentico naturalmente la componente orchestrale, affidata all’abile bacchetta di Aleksej Repnikov, dal 2007 alla guida dell’orchestra pietroburghese per quanto concerne il repertorio ballettistico del quale ha affrontato praticamente tutti i grandi titoli. Sotto la sua esperta guida l’Orchestra del Verdi s’è mostrata in ottima forma, ed ha espresso il meglio di sé specialmente nella lussureggiante partitura di “Salomé”.
Teatro